Chi segue la mia
rivista
dall’inizio, sa
che il suo fine
era quello di
aprire finestre
su tutte le
arti, musica in
primis.
Le cose, però,
col passare
degli anni, sono
andate molto
diversamente e
ci siamo
occupati
principalmente
di letteratura e
dintorni, con
uno sguardo
all’attualità
sociale del
Paese, di cui ci
siamo spesso
lagnati.
L’Italia langue,
per tante
ragioni. Ma non
è più il momento
di puntare i
riflettori su
una situazione
stagnante che
probabilmente
non mostrerà
segnali di
ripresa stabili
per gli anni a
venire.
De hoc satis,
non parliam più
di ciò.
Come un tempo,
ma per l’ultima
volta in vita
mia, tratterò di
musica.
In passato mi
muovevo spesso
per recensire
spettacoli,
ascoltare
ensembles e
cantanti,
scoprire (e
riscoprire) i
luoghi della
cultura musicale
italiana e non
solo.
Poi, qualcosa è
cambiato. Nel
corso degli anni
ho notato un
notevole
appiattimento
dell’offerta
culturale,
probabilmente
per mancanza di
idee o per
scelte
registiche (nel
caso degli
spettacoli
d’opera, ad
esempio) che
spesso, più per
desiderio di
stupire che per
aderenza alla
situazione
storica
evidenziata nei
libretti,
divenivano
prodotti
incapaci di
segnare in
qualche modo la
storia recente.
Per diretta
conseguenza,
l’interesse del
sottoscritto in
quella che era
divenuta
un’offerta a dir
poco ripetitiva,
è andata
progressivamente
scemando.
Fino a qualche
tempo fa, quando
mi sono
imbattuto
nell’ascolto di
giovani voci
italiane che
finalmente erano
riuscite a
squarciare il
velo della
monotonia nel
quale il mondo
musicale per
definizione
classico mi
sembrava essere
irrimediabilmente
caduto.
Tra l’altro,
considerando le
decine di
ascolti
discografici
dell’ultimo
periodo, ho
intenzione di
segnalare, come
ultimo
consiglio,
qualcosa di
veramente
intrigante:
Monologues,
doppio album
dell’eccellente
mezzosoprano
Anna Bonitatibus,
recentissima
vincitrice del
premio Händel,
accompagnata al
pianoforte da
Adele D’Aronzo,
in cui spiccano
la cantata
Saffo di
Donizetti e
Les adieux de
Marie Stuart
WWV 61 di
Wagner, in cui
la vigorosissima
interprete dà il
meglio di sé,
confermandosi
tra le solide
certezze della
lirica
internazionale.
Ed a proposito
del grande
rivoluzionario
del romanticismo
musicale tedesco
(chi vi scrive è
stato con ogni
probabilità il
più giovane e
convinto
wagneriano
d’Italia
dell’ultimo
squarcio del
secolo appena
trascorso) un
capitolo a parte
bisognerebbe
aprire parlando
di Bayreuth, che
da molto,
moltissimo tempo
propone una
liturgia secondo
me completamente
disancorata
dalle intenzioni
originarie dello
stesso Wagner.
Ma dovrei
analizzare la
faccenda
attraverso un
discreto numero
di pagine e
sinceramente
penso che la
questione
interessi
veramente poco
ai più.
Il Festspiele
è – per
l’appunto – una
liturgia e come
tale ormai va
considerata.
Immutabile dopo
la dipartita di
Wieland ed ormai
caratterizzata
da certi
plenum
orchestrali in
cui la voce dei
cantanti viene
messa sotto
sforzo oltre
ogni limite.
Wagner andrebbe
eseguito dando
la possibilità
agli interpreti
di cantare
più che
declamar
cantando.
C’è una
sostanziale
differenza. E
molti puristi,
probabilmente,
storceranno il
naso di fronte a
queste mie
affermazioni,
assuefatti ormai
dalla detta
liturgia.
Poco importa.
Come detto, è
l’ultima volta
che scriverò di
musica. Dopo tre
decenni di
peregrinazioni
per i vari
teatri, circa
quarant’anni di
ascolti in disco
(si comincia da
bambini ad
innamorarsi
della musica, in
certi casi
addirittura
quasi in fasce)
ed un discreto
numero di
recensioni,
credo di potermi
permettere
qualche piccolo
lusso, almeno
alla fine.
L’occasione di
questa breve
analisi critica
è data dalla
visione di uno
spettacolo visto
ed ascoltato al
teatro San Carlo
di Napoli, la
cui première
è caduta proprio
ad un mese
esatto dal
secondo
anniversario
della morte di
mia madre,
promettente
pianista in
gioventù,
peraltro di un
compositore che
adorava,
Wolfgang Amadeus
Mozart.
Il Requiem,
in forma
scenica, già
presentato al
Festival di
Aix-en-Provence
nel 2019 e
riproposto per
il lirico
partenopeo.
Qualcosa, quindi
(almeno per me)
di assolutamente
sincronico,
vista la data in
cui veniva
proposto ed il
tema trattato.
Mi sono quindi
riservato un
palco proprio
sopra la fossa
orchestrale, in
modo da poter
apprezzare
l’intero lavoro,
da più punti di
vista. In
primis, le
varie sezioni
orchestrali. Che
si apprezzano
meglio, rispetto
al suono
d’insieme
valutabile da
altri settori
del teatro.
E da quel palco
è stato
possibile tenere
sott’occhio
anche la sala,
per comprendere
l’effettivo
gradimento del
pubblico. Si
notano quindi
cose che
difficilmente si
possono
comprendere da
un qualsiasi
altro posto a
sedere.
Piccole astuzie
da critico
musicale che
tanto mi sono
servite nel
corso degli
anni.
Inizio col dire
che si è
trattato di uno
spettacolo poco
apprezzato dai
puristi del
genere, che si
attendevano un
qualcosa,
diciamo così, di
più paludato.
La
disapprovazione
isolata, alla
chiusura del
sipario, è stata
però
letteralmente
sommersa dagli
applausi di chi
questo Requiem
lo ha gradito,
anche se forse
ha colto solo
uno dei diversi
livelli di
lettura che
la regia di
Romeo Castellucci
ha
offerto.
Già. Come va
letto questo
spettacolo?
Proviamo a
vederlo da un
punto di vista
squisitamente
analitico, per
quanto
possibile.
Anzitutto, non
si tratta del
solo Requiem,
musicalmente
parlando. È un
pastiche
che, alla fine
dei conti,
funziona
perfettamente.
Al levarsi del
sipario, viene
mostrata
un’anziana
vicino al suo
letto, con un
televisore che
mostra il
preserale di
una rete
nazionale, le
cui voci si
alternano sul
piccolo schermo.
Un giorno come
un altro. Uno
dei tanti di una
persona che ha
parecchi, troppi
anni di vita
sulle spalle.
Delusioni molte,
probabilmente.
Vive sola e
sente il peso
dell’età.
Va a dormire,
senza sapere che
quelli sono i
suoi ultimi
momenti terreni.
Scompare
letteralmente
nel suo lettino
singolo e poco
dopo si ascolta
il primo
intervento del
coro.
Musicalmente,
pure forme di
canto
gregoriano. Il
Christus
factus est.
Il letto viene
portato via
sulle note della
Meistermusik
in Do minore KV
477b. Da
brividi, nel
senso positivo
del termine.
Poi, l’Introitus
ed il Kyrie,
seguito dal
Ne pulvis et
cinis K. Anh
122 e dalla
celebre sequenza
del Dies irae,
tra le pagine
musicali che
preferisco, ed
in cui si vedono
i coristi dell’Ensemble
Pygmalion
correre in tondo
attorno ad una
bambina che
rappresenterà,
in seguito, il
capro espiatorio
dell’intera
umanità, in un
susseguirsi di
simbolismi che
avrebbero fatto
felice Jung in
persona.
E junghiani
sembrano i tanti
tableaux
vivants e le
situazioni che
vengono
presentate in
scena.
Sembra quasi di
veder prendere
vita tante
illustrazioni
del Rote Buch
del padre della
psicologia
del profondo,
con la figura
alata di
Filemone che
idealmente
aleggia sulla
rappresentazione.
Solo
ipoteticamente,
perché questa
figura non è
chiaramente
presente nella
visione
registica, ma a
me l’ha
immediatamente
rammentata.
Questo
Requiem vive
infatti
esclusivamente
di simboli e
rende realmente
partecipi coro e
solisti sul
palcoscenico.
Gli uni corrono
e cantano,
festeggiando,
s’imbrattano di
terra e fango,
spargono colore
sui fondali; gli
altri
interagiscono
dando un senso
compiuto al
testo
interpretato con
azioni e gesti
simbolici, per
l’appunto,
fondendosi in
quella che è
davvero un’opera
d’arte totale.
Danzatori e
coristi
intrecciano i
loro sforzi per
una serie di
quadri spesso
coloratissimi in
cui le note del
Mozart morente
(e parte dei
numeri
ultimati ed
integrati da
Süßmayr)
diventano un
vero e proprio
inno alla vita.
Dopo il resto
della
sequenza e
l’offertorio
diviso in due ed
intervallato dal
Quis te
comprehendat,
si passa al
Sanctus
seguito dal
Benedictus,
passando per il
Kirchenlieder
K. 343
O Gottes Lamm,
proseguendo
con l’Agnus
Dei ed il
Miserere
K. 90.
La conclusione è
affidata alla
voce bianca del
solista del
Münchner
Knabenchor
César
Badault, che
intona
l’antifona
In paradisum,
mentre le tre
figure femminili
che hanno ridato
vita alla donna
morente al
principio dello
spettacolo
recano in scena
un infante che,
per come la vedo
personalmente,
rappresenta il
trionfo della
vita che rinasce
sulla morte e
dona nuova
speranza al
mondo, dopo che
a mo’ di
sovratitolo,
lungo l’intero
percorso
scenico, è
passato una
sorta di
Atlante delle
grandi
estinzioni.
L’Ensemble
Pygmalion,
come dicevo, dà
il meglio di sé.
Ed è un vero
piacere vedere
questi artisti
immergersi
letteralmente
negli elementi
per regalare al
pubblico una
visione
d’insieme
simbolica quanto
ben preparata
fin nei
dettagli.
Assolutamente
coinvolgente.
Raphaël Pichon
dirige con
disinvoltura la
limpida
orchestra del
San Carlo, con
gesto deciso.
Piacevole a
vedersi,
soprattutto per
la naturalezza
con cui dialoga
con l’insieme
orchestrale.
Impressionante,
dal momento che
non ha neppure
quarant’anni e
considerando il
notevole
curriculum.
Un largo spazio
voglio dedicarlo
ai solisti,
tenendo conto
del fatto che lo
spettacolo aveva
bisogno di
interpreti che
fossero in grado
di trasmettere
forti emozioni
al pubblico in
sala.
Sara Mingardo
non ha certo
bisogno di
presentazioni.
Peraltro, è la
sola delle
quattro voci
soliste già
presenti alla
prima di Aix ed
il suo modello
interpretativo è
una garanzia.
Dizione
impeccabile e
presenza scenica
fanno della
celebre cantante
veneziana un
elemento di
solidità
dell’intera
messa in scena.
Un’interpretazione
gradevole,
piena, corposa.
L’effetto
inebriante della
voce può esser
paragonabile a
quello della
degustazione di
un pregiatissimo
quanto prezioso
liquore.
Ascoltarla, sia
in disco che dal
vivo è sempre un
piacere di cui
difficilmente si
può fare a meno.
Il tenore
Julian
Prégardien, che
con Pygmalion e
Castellucci ha
già
precedentemente
lavorato, fa una
gran figura
scenica e
vocale, seppure
ci sia da
registrare
qualche
esitazione
iniziale,
probabilmente
complice
l’emozione della
prima di uno
spettacolo così
complesso e che
prevede ben più
di una semplice
interazione con
coro e
danzatori.
D’altronde,
anche Prégardien
ha un curriculum
di tutto
rispetto,
considerando
anche gli
incarichi di
direttore
artistico della
Brentano-Akademie
di Aschaffenburg
e di professore
di canto alla
Hochschule für
Musik und
Theater di
Monaco di
Baviera.
E qualche
incertezza anche
qui suppongo
dovuta alla
tensione dello
spettacolo
d’esordio l’ha
avuta anche il
giovanissimo
solista del
Münchner
Knabenchor,
César Badault,
che però chiude
benissimo lo
spettacolo con
la toccante e
molto ben
eseguita
antifona In
Paradisum,
come già
accennavo.
Una delle mie
voci preferite,
per numero e
qualità di
ascolti in disco
e video è quella
del basso
argentino
Nahuel di Pierro,
considerato uno
dei cantanti più
versatili della
sua generazione.
Voce possente e
grande presenza
scenica, anche
quando litiga
col costume di
scena intorno
alla metà della
rappresentazione.
È un piacere
vederlo
interagire con
il resto degli
interpreti, con
cui si amalgama
alla perfezione.
Un lungo
paragrafo a
parte merita
quella che a mio
avviso è
l’interprete più
cristallina
dello spettacolo
la quale, per
citare il mio
conterraneo
Quinto Orazio
Flacco, è
splendidior
vitro, come
la celebre fonte
di Bandusia.
Giulia Semenzato
possiede una
voce
assolutamente
straordinaria.
Limpida, piena,
adamantina. Un
timbro
riconoscibile
tra migliaia ed
in grado di
cantare
qualsiasi cosa,
indipendentemente
dalle difficoltà
e dall’impegno
richiesto.
È un’artista
completa, a
trecentosessanta
gradi,
considerata
anche la sua
indubbia
presenza scenica
e le capacità
attoriali.
Chi scrive, si è
occupato per
anni ed anni
anche di cinema
e teatro e
conosce
piuttosto bene
il mondo dello
spettacolo.
So quel che dico
e non ho alcuna
tema di smentite
quando affermo
che la signora
Semenzato (per
fare un paragone
intelligibile a
chiunque, anche
a coloro che non
sono
propriamente
addentro alle
cose di musica)
è la Maria
Callas del
Ventunesimo
Secolo.
E, come fece
Eugenio Gara nel
1949, coniando
per la Diva
l’espressione di
soprano
drammatico
d’agilità,
voglio dare
anch’io una
definizione che
possa restare
impressa e che
descriva bene
quella che in
questo momento è
la voce migliore
al mondo e lo
sarà sicuramente
per molti,
moltissimi anni
a venire.
Giulia Semenzato
è una
Strahlenderssopran.
Una soprano
luminosa.
Non trovo
esagerato
affermare, lo
ribadisco ancora
una volta, che
per estensione,
potenza,
modulazione,
volume ed
energia possa
davvero cantare
qualsiasi cosa.
Anche il
repertorio
wagneriano,
conservando la
voce là dove
moltissimi altri
artisti la
perdono
progressivamente
dopo aver
letteralmente
lottato contro
il già citato
plenum
orchestrale
divenuto di moda
anche al
Festspiele
dagli anni
Trenta del
Ventesimo Secolo
in poi.
Sarebbe una
Isolde
da leggenda. Ne
sono
assolutamente
certo.
Che abbia
notevole
spessore, se ne
sono accorti
all’estero, dal
momento che la
signora
Semenzato canta
in modo
pressoché
stabile fuori
dai nostri
confini
nazionali, fatta
salva ormai
qualche
eccezione come
questa
napoletana.
Senza proseguire
oltre questo
doveroso
panegirico nei
confronti di
quella che
considero
Voce tra le voci
del panorama
lirico mondiale,
trovo molto
triste che i
teatri alle
nostre
latitudini si
stiano lasciando
sfuggire vere e
proprie
eccellenze a
livello mondiale
come questa,
preferendo in
tante occasioni
voci
d’oltreconfine
più o meno note
ed ormai lontane
dai fasti del
passato recente.
La breve tirata
polemica è
dovuta al fatto
che per molto
tempo lo
scrivente
ribadisce di
essersi trovato
ad ascoltare,
praticamente per
tutto lo
Stivale, nel
corso degli
ultimi
trent’anni, voci
e spettacoli
sbandierati come
rivoluzionari ed
innovativi,
spegnendosi
progressivamente
dopo ogni
ascolto più o
meno deludente.
È quest’ultima
generazione di
cantanti,
ripeto, che mi
ha ridestato. Ed
è a questi nuovi
e generosi
artisti che
viene affidato
il futuro della
lirica, non solo
nazionale.
Bene. Non c’è
altro da
aggiungere per
questa che è la
mia recensione
definitiva, in
ogni senso
possibile.
Una critica
d’altri tempi,
come si usava
fare quando
erano
soprattutto gli
scrittori (che
erano anche
giornalisti) a
raccontare pregi
e difetti degli
spettacoli a
coloro che non
avevano avuto la
ventura di poter
assistere ad una
rappresentazione
o che si
accingevano a
farlo.
Oggi le cose
vanno molto
diversamente e
la critica è
tutt’altra cosa.
Non è più una
pagina di
letteratura,
ma un resoconto
soprattutto
tecnico, dove
l’emozione è
accessoria, non
necessaria.
Io preferivo
raccontare
un evento e
trasmettere
sensazioni.
Non è più tempo,
non è più
momento.
Viviamo in un
mondo mordi e
fuggi, dove
la gente si
stanca
facilmente e
perde
rapidamente la
concentrazione.
È il mondo che è
cambiato. Non lo
sono io, che
ancora vivo di
emozioni.
Considero questo
il mio canto del
cigno, almeno
per quanto
concerne la
critica
musicale.
Adesso, lascerò
cadere la penna
e metterò il
dito indice
sulle labbra.