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© Gabriele Vitella

Un blog che vuol essere un caffè con le Muse.

S
enza l’Arte non potremmo essere vivi.


 
Giugno 2023

 
  Un requiem napoletano  
 

 

(Recensione musicale apparsa sul numero 2 del 2023 della rivista online L’Aurora)

 

Chi segue la mia rivista dall’inizio, sa che il suo fine era quello di aprire finestre su tutte le arti, musica in primis.

Le cose, però, col passare degli anni, sono andate molto diversamente e ci siamo occupati principalmente di letteratura e dintorni, con uno sguardo all’attualità sociale del Paese, di cui ci siamo spesso lagnati.

L’Italia langue, per tante ragioni. Ma non è più il momento di puntare i riflettori su una situazione stagnante che probabilmente non mostrerà segnali di ripresa stabili per gli anni a venire.

De hoc satis, non parliam più di ciò.

Come un tempo, ma per l’ultima volta in vita mia, tratterò di musica.

In passato mi muovevo spesso per recensire spettacoli, ascoltare ensembles e cantanti, scoprire (e riscoprire) i luoghi della cultura musicale italiana e non solo.

Poi, qualcosa è cambiato. Nel corso degli anni ho notato un notevole appiattimento dell’offerta culturale, probabilmente per mancanza di idee o per scelte registiche (nel caso degli spettacoli d’opera, ad esempio) che spesso, più per desiderio di stupire che per aderenza alla situazione storica evidenziata nei libretti, divenivano prodotti incapaci di segnare in qualche modo la storia recente.

Per diretta conseguenza, l’interesse del sottoscritto in quella che era divenuta un’offerta a dir poco ripetitiva, è andata progressivamente scemando.

Fino a qualche tempo fa, quando mi sono imbattuto nell’ascolto di giovani voci italiane che finalmente erano riuscite a squarciare il velo della monotonia nel quale il mondo musicale per definizione classico mi sembrava essere irrimediabilmente caduto.

Tra l’altro, considerando le decine di ascolti discografici dell’ultimo periodo, ho intenzione di segnalare, come ultimo consiglio, qualcosa di veramente intrigante: Monologues, doppio album dell’eccellente mezzosoprano Anna Bonitatibus, recentissima vincitrice del premio Händel, accompagnata al pianoforte da Adele D’Aronzo, in cui spiccano la cantata Saffo di Donizetti e Les adieux de Marie Stuart WWV 61 di Wagner, in cui la vigorosissima interprete dà il meglio di sé, confermandosi tra le solide certezze della lirica internazionale.

Ed a proposito del grande rivoluzionario del romanticismo musicale tedesco (chi vi scrive è stato con ogni probabilità il più giovane e convinto wagneriano d’Italia dell’ultimo squarcio del secolo appena trascorso) un capitolo a parte bisognerebbe aprire parlando di Bayreuth, che da molto, moltissimo tempo propone una liturgia secondo me completamente disancorata dalle intenzioni originarie dello stesso Wagner.

Ma dovrei analizzare la faccenda attraverso un discreto numero di pagine e sinceramente penso che la questione interessi veramente poco ai più.

Il Festspiele è – per l’appunto – una liturgia e come tale ormai va considerata. Immutabile dopo la dipartita di Wieland ed ormai caratterizzata da certi plenum orchestrali in cui la voce dei cantanti viene messa sotto sforzo oltre ogni limite.

Wagner andrebbe eseguito dando la possibilità agli interpreti di cantare più che declamar cantando.

C’è una sostanziale differenza. E molti puristi, probabilmente, storceranno il naso di fronte a queste mie affermazioni, assuefatti ormai dalla detta liturgia.

Poco importa. Come detto, è l’ultima volta che scriverò di musica. Dopo tre decenni di peregrinazioni per i vari teatri, circa quarant’anni di ascolti in disco (si comincia da bambini ad innamorarsi della musica, in certi casi addirittura quasi in fasce) ed un discreto numero di recensioni, credo di potermi permettere qualche piccolo lusso, almeno alla fine.

L’occasione di questa breve analisi critica è data dalla visione di uno spettacolo visto ed ascoltato al teatro San Carlo di Napoli, la cui première è caduta proprio ad un mese esatto dal secondo anniversario della morte di mia madre, promettente pianista in gioventù, peraltro di un compositore che adorava, Wolfgang Amadeus Mozart.

Il Requiem, in forma scenica, già presentato al Festival di Aix-en-Provence nel 2019 e riproposto per il lirico partenopeo.

Qualcosa, quindi (almeno per me) di assolutamente sincronico, vista la data in cui veniva proposto ed il tema trattato.

Mi sono quindi riservato un palco proprio sopra la fossa orchestrale, in modo da poter apprezzare l’intero lavoro, da più punti di vista. In primis, le varie sezioni orchestrali. Che si apprezzano meglio, rispetto al suono d’insieme valutabile da altri settori del teatro.

E da quel palco è stato possibile tenere sott’occhio anche la sala, per comprendere l’effettivo gradimento del pubblico. Si notano quindi cose che difficilmente si possono comprendere da un qualsiasi altro posto a sedere.

Piccole astuzie da critico musicale che tanto mi sono servite nel corso degli anni.

Inizio col dire che si è trattato di uno spettacolo poco apprezzato dai puristi del genere, che si attendevano un qualcosa, diciamo così, di più paludato.

La disapprovazione isolata, alla chiusura del sipario, è stata però letteralmente sommersa dagli applausi di chi questo Requiem lo ha gradito, anche se forse ha colto solo uno dei diversi livelli di lettura che la regia di Romeo Castellucci ha offerto.

Già. Come va letto questo spettacolo?

Proviamo a vederlo da un punto di vista squisitamente analitico, per quanto possibile.

Anzitutto, non si tratta del solo Requiem, musicalmente parlando. È un pastiche che, alla fine dei conti, funziona perfettamente.

Al levarsi del sipario, viene mostrata un’anziana vicino al suo letto, con un televisore che mostra il preserale di una rete nazionale, le cui voci si alternano sul piccolo schermo.

Un giorno come un altro. Uno dei tanti di una persona che ha parecchi, troppi anni di vita sulle spalle. Delusioni molte, probabilmente. Vive sola e sente il peso dell’età.

Va a dormire, senza sapere che quelli sono i suoi ultimi momenti terreni.

Scompare letteralmente nel suo lettino singolo e poco dopo si ascolta il primo intervento del coro.

Musicalmente, pure forme di canto gregoriano. Il Christus factus est.

Il letto viene portato via sulle note della Meistermusik in Do minore KV 477b. Da brividi, nel senso positivo del termine.

Poi, l’Introitus ed il Kyrie, seguito dal Ne pulvis et cinis K. Anh 122 e dalla celebre sequenza del Dies irae, tra le pagine musicali che preferisco, ed in cui si vedono i coristi dell’Ensemble Pygmalion correre in tondo attorno ad una bambina che rappresenterà, in seguito, il capro espiatorio dell’intera umanità, in un susseguirsi di simbolismi che avrebbero fatto felice Jung in persona.

E junghiani sembrano i tanti tableaux vivants e le situazioni che vengono presentate in scena.

Sembra quasi di veder prendere vita tante illustrazioni del Rote Buch del padre della psicologia del profondo, con la figura alata di Filemone che idealmente aleggia sulla rappresentazione.

Solo ipoteticamente, perché questa figura non è chiaramente presente nella visione registica, ma a me l’ha immediatamente rammentata.

Questo Requiem vive infatti esclusivamente di simboli e rende realmente partecipi coro e solisti sul palcoscenico. Gli uni corrono e cantano, festeggiando, s’imbrattano di terra e fango, spargono colore sui fondali; gli altri interagiscono dando un senso compiuto al testo interpretato con azioni e gesti simbolici, per l’appunto, fondendosi in quella che è davvero un’opera d’arte totale.

Danzatori e coristi intrecciano i loro sforzi per una serie di quadri spesso coloratissimi in cui le note del Mozart morente (e parte dei numeri ultimati ed integrati da Süßmayr) diventano un vero e proprio inno alla vita.

Dopo il resto della sequenza e l’offertorio diviso in due ed intervallato dal Quis te comprehendat, si passa al Sanctus seguito dal Benedictus, passando per il Kirchenlieder K. 343 O Gottes Lamm, proseguendo con l’Agnus Dei ed il Miserere K. 90.

La conclusione è affidata alla voce bianca del solista del Münchner Knabenchor César Badault, che intona l’antifona In paradisum, mentre le tre figure femminili che hanno ridato vita alla donna morente al principio dello spettacolo recano in scena un infante che, per come la vedo personalmente, rappresenta il trionfo della vita che rinasce sulla morte e dona nuova speranza al mondo, dopo che a mo’ di sovratitolo, lungo l’intero percorso scenico, è passato una sorta di Atlante delle grandi estinzioni.

L’Ensemble Pygmalion, come dicevo, dà il meglio di sé.

Ed è un vero piacere vedere questi artisti immergersi letteralmente negli elementi per regalare al pubblico una visione d’insieme simbolica quanto ben preparata fin nei dettagli. Assolutamente coinvolgente.

Raphaël Pichon dirige con disinvoltura la limpida orchestra del San Carlo, con gesto deciso. Piacevole a vedersi, soprattutto per la naturalezza con cui dialoga con l’insieme orchestrale.

Impressionante, dal momento che non ha neppure quarant’anni e considerando il notevole curriculum.

Un largo spazio voglio dedicarlo ai solisti, tenendo conto del fatto che lo spettacolo aveva bisogno di interpreti che fossero in grado di trasmettere forti emozioni al pubblico in sala.

Sara Mingardo non ha certo bisogno di presentazioni. Peraltro, è la sola delle quattro voci soliste già presenti alla prima di Aix ed il suo modello interpretativo è una garanzia. Dizione impeccabile e presenza scenica fanno della celebre cantante veneziana un elemento di solidità dell’intera messa in scena.

Un’interpretazione gradevole, piena, corposa. L’effetto inebriante della voce può esser paragonabile a quello della degustazione di un pregiatissimo quanto prezioso liquore.

Ascoltarla, sia in disco che dal vivo è sempre un piacere di cui difficilmente si può fare a meno.

Il tenore Julian Prégardien, che con Pygmalion e Castellucci ha già precedentemente lavorato, fa una gran figura scenica e vocale, seppure ci sia da registrare qualche esitazione iniziale, probabilmente complice l’emozione della prima di uno spettacolo così complesso e che prevede ben più di una semplice interazione con coro e danzatori.

D’altronde, anche Prégardien ha un curriculum di tutto rispetto, considerando anche gli incarichi di direttore artistico della Brentano-Akademie di Aschaffenburg e di professore di canto alla Hochschule für Musik und Theater di Monaco di Baviera.

E qualche incertezza anche qui suppongo dovuta alla tensione dello spettacolo d’esordio l’ha avuta anche il giovanissimo solista del Münchner Knabenchor, César Badault, che però chiude benissimo lo spettacolo con la toccante e molto ben eseguita antifona In Paradisum, come già accennavo.

Una delle mie voci preferite, per numero e qualità di ascolti in disco e video è quella del basso argentino Nahuel di Pierro, considerato uno dei cantanti più versatili della sua generazione.

Voce possente e grande presenza scenica, anche quando litiga col costume di scena intorno alla metà della rappresentazione.

È un piacere vederlo interagire con il resto degli interpreti, con cui si amalgama alla perfezione.

Un lungo paragrafo a parte merita quella che a mio avviso è l’interprete più cristallina dello spettacolo la quale, per citare il mio conterraneo Quinto Orazio Flacco, è splendidior vitro, come la celebre fonte di Bandusia.

Giulia Semenzato possiede una voce assolutamente straordinaria. Limpida, piena, adamantina. Un timbro riconoscibile tra migliaia ed in grado di cantare qualsiasi cosa, indipendentemente dalle difficoltà e dall’impegno richiesto.

È un’artista completa, a trecentosessanta gradi, considerata anche la sua indubbia presenza scenica e le capacità attoriali.

Chi scrive, si è occupato per anni ed anni anche di cinema e teatro e conosce piuttosto bene il mondo dello spettacolo.

So quel che dico e non ho alcuna tema di smentite quando affermo che la signora Semenzato (per fare un paragone intelligibile a chiunque, anche a coloro che non sono propriamente addentro alle cose di musica) è la Maria Callas del Ventunesimo Secolo.

E, come fece Eugenio Gara nel 1949, coniando per la Diva l’espressione di soprano drammatico d’agilità, voglio dare anch’io una definizione che possa restare impressa e che descriva bene quella che in questo momento è la voce migliore al mondo e lo sarà sicuramente per molti, moltissimi anni a venire.

Giulia Semenzato è una Strahlenderssopran. Una soprano luminosa.

Non trovo esagerato affermare, lo ribadisco ancora una volta, che per estensione, potenza, modulazione, volume ed energia possa davvero cantare qualsiasi cosa.

Anche il repertorio wagneriano, conservando la voce là dove moltissimi altri artisti la perdono progressivamente dopo aver letteralmente lottato contro il già citato plenum orchestrale divenuto di moda anche al Festspiele dagli anni Trenta del Ventesimo Secolo in poi.

Sarebbe una Isolde da leggenda. Ne sono assolutamente certo.

Che abbia notevole spessore, se ne sono accorti all’estero, dal momento che la signora Semenzato canta in modo pressoché stabile fuori dai nostri confini nazionali, fatta salva ormai qualche eccezione come questa napoletana.

Senza proseguire oltre questo doveroso panegirico nei confronti di quella che considero Voce tra le voci del panorama lirico mondiale, trovo molto triste che i teatri alle nostre latitudini si stiano lasciando sfuggire vere e proprie eccellenze a livello mondiale come questa, preferendo in tante occasioni voci d’oltreconfine più o meno note ed ormai lontane dai fasti del passato recente.

La breve tirata polemica è dovuta al fatto che per molto tempo lo scrivente ribadisce di essersi trovato ad ascoltare, praticamente per tutto lo Stivale, nel corso degli ultimi trent’anni, voci e spettacoli sbandierati come rivoluzionari ed innovativi, spegnendosi progressivamente dopo ogni ascolto più o meno deludente.

È quest’ultima generazione di cantanti, ripeto, che mi ha ridestato. Ed è a questi nuovi e generosi artisti che viene affidato il futuro della lirica, non solo nazionale.

Bene. Non c’è altro da aggiungere per questa che è la mia recensione definitiva, in ogni senso possibile.

Una critica d’altri tempi, come si usava fare quando erano soprattutto gli scrittori (che erano anche giornalisti) a raccontare pregi e difetti degli spettacoli a coloro che non avevano avuto la ventura di poter assistere ad una rappresentazione o che si accingevano a farlo.

Oggi le cose vanno molto diversamente e la critica è tutt’altra cosa. Non è più una pagina di letteratura, ma un resoconto soprattutto tecnico, dove l’emozione è accessoria, non necessaria.

Io preferivo raccontare un evento e trasmettere sensazioni.

Non è più tempo, non è più momento.

Viviamo in un mondo mordi e fuggi, dove la gente si stanca facilmente e perde rapidamente la concentrazione.

È il mondo che è cambiato. Non lo sono io, che ancora vivo di emozioni.

Considero questo il mio canto del cigno, almeno per quanto concerne la critica musicale.

Adesso, lascerò cadere la penna e metterò il dito indice sulle labbra.

Restano le note sospese nell’aria.

Prima la musica, dopo le parole.

 

 
  Gabriele Vitella
 
     



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